Il mito di Biancaneve nelle Dolomiti
La storia di Biancaneve curiosamente possiede nel mondo dolomitico tre leggende che ne ricalcano la struttura: la prima è quella di Re Laurino, localizzata nel Catinaccio/Rosengarten, celebre nel mondo tedesco per essere contenuta in uno dei primi documenti poetici della cultura germanica del 1200; la seconda è ambientata nell’Alto Cordevole, in un’antica miniera di rame lungo il rio dell’Aurona, presso Arabba, mentre la terza è legata alle miniere di ferro del monte Pore: In queste tre narrazioni appare la figura di una nobile giovane donna segregata nel mondo oscuro della miniera, dalla quale sarà liberata solo dall’intervento di un principe od un re; con la sua fuga dalle viscere della terra anche la ricchezza del mondo sotterraneo si dileguerà, con l’abbandono della miniera.
Esaminando singolarmente i tre testi, vediamo che la leggenda del Rosengarten fissata poeticamente nel 1200 sembra avere radici in un mondo molto precedente, che ha portato all’elaborazione della figura dei nani e dei loro poteri magici, ma nell’ambiente reale non possiede nessun legame minerario, che invece appare nella fisicamente vicina leggenda dell’Aurona: a parte il nome, che la lega al rame (lat. auramen) ed anche a re Laurino (L’Aurino), nell’area dell’alto Cordevole si sono rinvenute delle cuspidi di lancia, databili al Bronzo recente (1300-1100 a. C.); inoltre nella leggenda la mancanza di un alone magico e della figura dei Nani, fa pensare, coi dati toponomastici ed archeologici, che essa sia all’origine della storia di Re Laurino, germogliata fisicamente a poca distanza e nel punto in cui veniva a contatto il mondo germanico con quello retico-ladino, rappresentando così in modo simbolico l’affermazione germanica sul territorio, con la vittoria di Teodorico di Verona su Laurino, re di una comunità mineraria dei Reti.
Infine abbiamo la leggenda delle miniere di ferro del Pore: se rileggiamo la Biancaneve dei Fratelli Grimm, scopriamo che essi collocano la miniera dei sette Nani a sud delle “sette montagne di vetro”, cioè i sette grandi ghiacciai delle Alpi orientali; nella zona del Sud Tirolo storico solo due aree minerarie hanno una grande importanza e notorietà, cioè le miniere di rame della valle Aurina e quelle del monte Pore. Se per le prime non possediamo leggende o dati archeologici che ci orientino verso lo scenario in cui si muove la fiaba di Biancaneve, invece il monte Pore offre una gamma vastissima di dati: vediamoli schematicamente:

Monte Pore
Archeologia: nel 1880, quasi sulla sommità di questo monte, si rinvenne un’epigrafe in caratteri paleoveneti, in una posizione molto distante ed isolata rispetto ai più vicini centri di tale civiltà preromana nel Cadore (santuario di Làgole). Solo recentemente un’altra epigrafe è venuta alla luce nei vicini pascoli di Mondeval che anche per altri indizi archeologici vennero frequentati dai Paleoveneti.
Toponomastica: il nome del monte è paleoveneto e deriva da un appellativo dell’antica dea degli antichi Veneti: “Pora” infatti è interpretato come “Datrice di ricchezza”, quindi questo è il monte “di Pora” o sacro alla dea “datrice di ricchezze”; ricordiamo che era anche chiamata Sainati (sanatrice) nel santuario di Lagole e Regina, attestato in un suo tempio a Padova.
Anche l’area di sviluppo della ricerca mineraria, il Fursìl, è collegato glottologicamente al veneto “fersu”, cioè al ferro. Per questi motivi è facile pensare che tale monte con le sue risorse minerarie fosse conosciuto ed utilizzato già nell’età del Ferro dai Paleoveneti.
Papaveri Leggende: nella vasta raccolta di leggende dei Monti Pallidi realizzata dal Wolff, nel ciclo più celebre legato alle guerre dei Fanes contro i popoli vicini appare la Tsicuta (Cicuta), una vecchia maga che ha al suo servizio un corvo e possiede una pietra magica, la Rajetta (la “raggiante”); ella è esperta in pozioni soporifere ed abita sul Megòn de megojes (in ladino “il papavero dei papaveri”). Il papavero in questione è quello da oppio, che nel suo nome ladino conserva stranamente quello del greco classico, mèkon. Il Megòn esiste realmente ed è una propaggine del monte Pore, con un terrazzamento che presenta ancora le tracce di due antichi focolari. Che la Tsicuta non sia un’invenzione del Wolff appare anche dal nome dato solo localmente all’Aconitum napellus, la pianta più velenosa delle nostre montagne, mortale in tutte le sue parti: in quest’area essa è chiamata la fava de la vegia da mont (la fava della vecchia della montagna), il che pone molti sospetti sulla vera identità della Vecchia.

Aconito
La sua signoria sul corvo, sul papavero, sulla vita e sulla morte, collegata al nome paleoveneto del Monte Pore e sull’ambientazione sicuramente preromana delle leggende del ciclo dei Fanes, la accostano o meglio la identificano con la dea paleoveneta presente nel santuario delle acque sananti di Làgole e raffigurata nei dischi bronzei provenienti da Montebelluna ed esposti nel Museo Civico di Treviso, in cui la troviamo rappresentata con la chiave della vita, il corvo, il lupo, il papavero, ma anche con altre piante che possiedono un valore simbolico nelle leggende ladine, quali il crocus primaverile, inizio della vita in montagna, il colchico autunnale, segno dello spegnersi della buona stagione e le seliettes (le “piccole anime”), cioè il myosotis o non ti scordar di me, con un nome che rimbalza in inglese, francese e tedesco con lo stesso significato e che forse adombra un antico mito o simbolo europeo.di cui abbiamo smarrito il senso, a parte il ricordo in alcune leggende ladine.
Terminata l’esposizione su questi elementi presenti nel monte Pore, passiamo ad una rapidissima sintesi della leggenda della Delibana, che riteniamo l’origine della figura del mito di Biancaneve: è una lunga narrazione elaborata dal Wolff che, non dimentichiamo, ignorava totalmente tutte le presenze ingombranti di natura mitica ed archeologica che abbiamo visto sul Pore.
Secondo la leggenda, quando la produzione di ferro minacciava di esaurirsi, nella miniera veniva condotta la più bella e nobile fanciulla del paese che, affidata ai nani (i morkies, un termine legato al verbo greco amergo cioè staccare, raschiare), doveva rimanere nel grembo della miniera per sette anni e solo alla precisa scadenza di tale periodo poteva essere riportata alla luce dal Re o da suo figlio che nella narrazione abitava nel castello di Andraz.

Disco di Montebelluna


Miniere del M. Pore

Con la sua presenza le vene metallifere nelle viscere della terra ricominciavano a produrre abbondantemente, dando la ricchezza ai minatori. Questa crudele usanza era stata instaurata da una Regina, gelosa della bellezza di una bella fanciulla del paese, che in tal modo era stata eliminata come possibile rivale.
Tale rituale era durato per molte generazioni finché la figlia dello stesso Signore delle miniere, impietosita per la sorte delle fanciulle e sentendosi in parte colpevole, come discendente della regina gelosa, decide di ricoprire ella stessa il ruolo della giovane sacrificata, la Delibana, e non tornerà più alla luce del sole. Così alla sua morte nell’oscurità della miniera anche la fecondità della madre Terra si inaridisce e la miniera viene abbandonata.
La storia della Delibana offre molti punti di contatto con le vicine leggende dell’Aurona e di Re Laurino, con la figura della giovane donna prigioniera nella miniera che continua a produrre ricchezze fino a quando un personaggio esterno libererà la fanciulla, determinando anche la fine della miniera stessa. Invece la storia della Delibana e l’enigmatica presenza della Tsicuta sul Pore presentano altri elementi che la legano a Biancaneve. Nei fratelli Grimm abbiamo la figura della regina gelosa che giungerà a volere la morte della fanciulla per divorarne le viscere (particolare macabro ma con un significato chiave per l’interpretazione della leggenda), mentre nella storia del Pore appare la Regina gelosa che vuole l’eliminazione temporanea della fanciulla (ma non si spiega il rapporto tra presenza nella miniera della fanciulla ed il rinnovarsi della produzione). La Tsicuta della leggenda ladina presente nel Pore nella sua ambivalenza di dea paleoveneta Regina e Pora-datrice di ricchezze, ma anche nel suo aspetto deteriore di maga delle erbe, Signora dei veleni e del papavero da oppio, è in grado di offrire alla fiaba dei Grimm il particolare della mela avvelenata e della morte apparente di Biancaneve, mentre con la sua pietra magica, la Rajetta, abbiamo l’archètipo sciamanico dello specchio.

Il Castello di Andraz
C’è quindi una concentrazione di dati nel monte Pore che fisicamente rifluiscono nella fiaba dei fratelli Grimm, ma con l’arcaicità divina della figura della Tsicuta, in realtà la grande dea paleoveneta delle piante, degli animali e dell’eterno divenire della vita appare il maggior elemento di legame con la Regina cattiva. La dea paleoveneta coincide con l’immagine della Madre Terra, intesa come essere vivente e datrice di vita: anche oggi parliamo di grembo o viscere della terra e, per le miniere appare il termine vena, conservando inconsciamente un concetto religioso particolarmente arcaico. In questo modo possiamo rileggere il rituale crudele del Pore: quando il grembo della Madre Terra perdeva la sua fertilità, minacciando il futuro dei minatori, bisognava ridarle energie, con la logica arcaica della magia simpatica, secondo la quale un corpo comunica per contatto le sue qualità ad un altro, come una mano calda riscalda una mano fredda: quindi la più bella e nobile fanciulla del paese era fatta scendere nella miniera per comunicare le sue intatte energie vitali e riproduttive al grembo esausto della Madre Terra. Questa logica si ritrova nei suoi effetti anche nelle vicine leggende dell’Aurona e di Re Laurino in cui le ricchezze minerarie del regno sotterraneo spariscono, con l’allontanamento della donna dalla miniera. Così si può supporre che questo rituale fosse diffuso nell’area dolomitica in un periodo particolarmente arcaico, legato alle prime attività estrattive dell’età del Bronzo e che rimanesse nei ricordi (o nell’uso?) fino all’età del Ferro preromana.
I minatori tedeschi che a partire dal Medioevo lavoravano nella grande miniera di ferro del Pore, a sud delle Sette montagne di vetro e nel lembo più meridionale del Sud Tirolo raccolsero e portarono in patria gli ultimi echi del rituale poi elaborato dai Grimm nella fiaba in cui appare drammaticamente sottolineato il ricordo della crudele tradizione mineraria nella scena della Regina cattiva che divora le viscere che dovevano appartenere a Biancaneve, per continuare ad essere la più bella del reame. In realtà questa è l’ultima immagine della grande dea della Terra che assimila le intatte energie vitali e riproduttive della fanciulla più bella e più nobile, per continuare ad essere forte ed in grado di produrre ricchezze da donare agli uomini.